E adesso come si fa a decidere un titolo, dopo tutto quello che si è detto?

Umberto Eco è stato, in questi anni, per me (per noi) una presenza quasi famigliare.

Non per le molte volte che lo abbiamo ascoltato in conferenze, dibattiti, presentazioni. E nemmeno per qualche fugace incontro in una dimensione più personale (in uno di questi incontri, in particolare, stavo trasportando un armadio, quindi difficilmente avrei potuto soffermarmi a filosofeggiare. Argh! Stavo per usare i punti di sospensione… No! Li ho usati. Doh).

 

Umberto Eco è stato, in questi anni, una presenza quasi famigliare perché ha saputo contribuire, con sagacia e ironia, a definire la cosmologia della nostra quotidianità.

È davvero sorprendere pensare quanti diversi aspetti della mia (nostra) vita siano stati in una qualche maniera influenzati dalle riflessioni del filosofo alessandrino. Non è strettamente necessario aver letto per intero la sua sterminata opera per subire questa pervasiva, divertente, invasione. A me, per esempio, è bastato leggere (quasi) tutti i sui romanzi, un paio (e non di più) dei suoi saggi più seri, i due splendidi Diari Minimi, qualcuno degli altri indefinibili volumi di riflessioni varie e molte Bustine per ritrovarmi pacificamente colonizzato.

Ho divorato Il nome della rosa intorno ai quattordici anni, scoprendo in un colpo solo il Medioevo, i gialli, la passione per i libri e perfino legittimità culturale di alcune inevitabili pulsioni adolescenziali. Kant e l’ornitorinco, volume assai meno lieve di quanto il titolo non farebbe pensare, è stato uno dei testi fondamentali per la mia tesi di dottorato, e – ogni volta che mi trovo a ragionare sui rapporti tra il pensiero e la realtà – torno ad alcune fondamentali frasi di quel libro che mi sono sempre di grande aiuto. Allo stesso modo non posso più pensare a un flipper senza perdermi in languide digressioni sulla sua sensualità. E ogni volta che mi metto a scrivere – proprio come sto facendo ora – mi chiedo se sono di nuovo scivolato in una delle tante pessime abitudini che il nostro, senza pietà, fustigava.

Quando rifletto sulle difficili sorti della nostra amata-odiata università non posso che tornare alle molte acute osservazioni che l’Eco professore ha, negli anni, fatto, ritrovandomi in fine a sognare una nuova facoltà. Una facoltà dove si studi l’urbanistica tzigana e la statica in assenza di gravità, dove si disserti dei cromatismi negli interni bui e di sintassi dei complementi d’arredo. Facoltà in cui io sarei, come decidemmo molti anni fa con alcuni amici sotto la pioggia della Galizia, docente di Mitighezza dei materiali.

Umberto Eco è stato, in questi anni, una presenza quasi famigliare insieme ad alcuni, pochi, altri. Almeno per quanto mi riguarda. Insieme a Manuel Vázquez Montalbán, cui ho sempre pensato somigliasse, un po’ anche fisicamente. Insieme, forse, a Italo Calvino. Membri ignari di un piccolo e gioioso pantheon laico che mi accompagna in questi tempi incerti. Perché in questa epoca PostTutto, superate le grandi narrazioni, senza ideologie e a corto di idee, in questa epoca in cui quasi ci si vergogna di voler imparare, Umberto Eco è stato per me (per noi) un vero maestro (nel senso Elementare e alto della parola, doverosamente qui senza maiuscola).

Che la terra le sia lieve, professore, e grazie di tutto.

 

Temo che il mio carissimo e fidato amico Andrea non mi perdonerebbe il fatto di aver scritto questo intero post senza mai usare la parola “semiotica”. Ma, ahi me, l’ho fatto. Forse perché, in fondo, non ho davvero mai capito cosa sia. Ma se è servita – dico, la semiotica – se è servita a Umberto Eco per concepire tutte quelle cose intelligenti, e divertenti, e utili, di sicuro è una disciplina fondamentale e prodigiosa.

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