Alejandro Aravena – architetto cileno di grande talento e sensibilità, premio Pritzker 2016 – è da poco docente del Politecnico di Milano. Alcuni giorni fa, grazie all’invito di Massimo Bricocoli (direttore del DAStU Politecnico di Milano) e di Matteo Poli (docente con Alejandro Aravena) – ho avuto il privilegio di partecipare ai lavori del Laboratorio ELEMENTAL con gli studenti della Scuola AUIC e con i dottorandi Gino Baldi, Giuliana Miglierina (che anni fa è stata mia studentessa…), Federico Scotti e Valerio Sorgini. Per il Workshop, Aravena ha scelto il tema della crisi abitativa delle nostre città e del costo insostenibile degli alloggi. Per arricchire il dibattito, ha chiesto di invitare una serie di personalità che fossero a vario titolo utili a costruire una visione complessiva del problema. Nei vari giorni sono intervenuti Elena Quares, Ilaria Lamera, Thomas Emmenegger, Regina De Albertis, Alessandro Maggioni, Alessandro Coppola, Giordana Ferri, Federico Parolotto, Giovanni Paviera, Filippo Salucci, Luca Talluri e perfino il sottoscritto. Di Alejandro mi ha stupito non solo l’acume (che, in fondo, mi aspettavo), ma anche l’umiltà e la capacità di ascolto, messa a disposizione degli incredibili studenti e di tutti noi. La conversazione è stata per me molto interessante e gli interventi degli studenti precisi e stimolanti. Sono tornato a casa con tanti pensieri e tante idee.
Un po’ perché toccava argomentare in inglese, un po’ per l’impressione di trovarsi a discutere con un Pritzker, e molto per rispetto degli studenti, nei giorni precedenti avevo buttato giù qualche appunto. Lì riporto qui, nel caso interessassero a qualcuno.
Personalmente ritengo fondamentale, nel discutere della crisi abitativa nelle nostre città, comprendere la complessità della questione: la sfida dell’accesso alla casa non è solo un problema in sé, quanto – piuttosto – il sintomo di una più ampia malattia sistemica. Consideriamo, ad esempio, la situazione in città come Torino dove, nonostante un mercato immobiliare stagnante, molte persone e famiglie faticano ancora ad affrontare le spese per un alloggio adeguato: questa apparente contraddizione svela un disequilibrio fondamentale nelle nostre città e nella nostra società in generale, che va oltre le condizioni economiche contingenti e locali e la specifica questione del costo della casa.
Naturalmente, possiamo e dobbiamo analizzare il problema in sé del costo elevato (o addirittura, in certi casi, esorbitante) delle case, che sia per l’affitto di un modesto appartamento o per l’acquisto di una casa per una vita. Questa barriera finanziaria colpisce in modo sproporzionato individui e famiglie a basso e medio reddito, accentuando le disparità socioeconomiche: per esempio, nei centri urbani con valori immobiliari in aumento, lavoratori essenziali come insegnanti, infermieri e la gran parte degli addetti ai servizi potrebbero trovarsi esclusi dai quartieri in cui lavorano e costretti a lunghi spostamenti o a vivere in condizioni abitative inadeguate. È urgente, dunque, affrontare questo tema, non solo per fondamentali ragioni morali e politiche, ma anche per motivi più strettamente utilitaristici: quartieri e città inospitali per i lavoratori che ne permettono il funzionamento hanno, credo, il destino segnato. Ma, come si diceva, la questione del costo degli alloggi è radicata nello squilibrio generale della nostra società e, conseguentemente, delle città e dei territori. Non è difficile osservare come, in molti casi, ci siano luoghi e comunità penalizzati, se non addirittura marginalizzati, che affrontano quotidianamente l’inadeguatezza del trasporto pubblico, un limitato accesso a servizi sanitari ed educativi di qualità e investimenti insufficienti nelle risorse comunitarie. Questi difetti sistematici perpetuano cicli di povertà e disuguaglianza, intrappolando individui e famiglie in un precario ciclo di instabilità abitativa. Finché non risolveremo questi problemi, l’unica via di fuga per molte persone – quando le condizioni economiche lo permettono – sarà insediarsi o trasferirsi in zone più ricche e salubri alimentando così il circolo vizioso dei costi degli alloggi da un lato e impoverendo ulteriormente quartieri e territori già vulnerabili dall’altro.
Come progettista che si è occupato quasi sempre di abitare e che ha anche avuto l’onore e l’onere di presiedere l’Ordine degli Architetti qui a Milano, come ricercatore e docente a contratto da ormai vent’anni al Politecnico di Milano e, più recentemente, come Assessore all’Urbanistica a Torino, mi sono fatto alcune idee, che proverò a tratteggiare.
Vedo due scenari profondamente diversi, entrambi radicali e non completamente incompatibili tra loro. Fondamentalmente, trovandoci in una economia di mercato, dobbiamo decidere quale tipo di relazione vogliamo instaurare con il mercato immobiliare.
Da un lato, possiamo scegliere di rimuovere almeno una parte della domanda abitativa dal mercato. Ciò significa avere un significativo stock di alloggi a costi sociali o calmierati, sostenendo l’intervento delle realtà no-profit e in particolare delle cooperative di abitanti, ma soprattutto tornando a produrre alloggi finanziati pubblicamente su terreni pubblici, che possono essere resi disponibili a coloro che ne hanno bisogno, influenzando direttamente sia i destinatari degli alloggi che, come fattore regolatore, il resto del mercato. Questo potrebbe sembrare impossibile oggi, dato il progressivo e inesorabile restringimento degli investimenti pubblici in questo come in molti altri settori. Personalmente ritengo che la politica della casa (pubblica) rimanga una delle questioni chiave di qualsiasi governo impegnato nell’inclusione; nei nostri ragionamenti, dobbiamo però considerare che si tratta principalmente di una decisione politica e, tra l’altro, di politica regionale e nazionale, se non addirittura europea. Sebbene come addetti ai lavori e come amministratori locali possiamo suggerire metodi, vie e strategie, è necessaria una volontà politica alla base che, nonostante intuisca la crisi di alcuni paradigmi liberisti che hanno caratterizzato il nostro recente passato, non vedo ancora all’orizzonte. Inoltre, una politica che si concentra sulla costruzione di nuove case o di nuovi quartieri entra in conflitto con gli obiettivi ambientali sempre più indispensabili, a partire dalla necessità di preservare il suolo e di recuperare almeno una parte di quello già consumato.
Personalmente penso che affrontare l’accessibilità degli alloggi non sia solo una questione di mitigazione dello stato contingente di crisi. Consideriamo l’analogia tra il trattamento dei sintomi e la cura delle malattie sottostanti: mentre le misure a breve termine – come le strategie di progettazione per limitare i costi di costruzione, i sussidi all’affitto o le iniziative di alloggi accessibili – curando il sintomo possono fornire un sollievo temporaneo, non affrontano i fattori strutturali che alimentano l’insicurezza abitativa. Senza riforme ambiziose volte ad affrontare le cause profonde del fenomeno, come le profonde diseguaglianze di reddito, la discriminazione abitativa e i disequilibri territoriali, gli sforzi per promuovere l’accessibilità alla casa produrranno inevitabilmente risultati limitati e di breve termine.
Un’altra strategia sarebbe quindi aumentare drasticamente il patrimonio abitativo adeguato desiderabile. Ma non costruendo nuove case, bensì rivitalizzando edifici, quartieri e interi territori, riscattandoli dalla loro attuale condizione di marginalità, rendendo possibile e piacevole per gli attuali residenti continuare a viverci e rendendoli anche attraenti per i nuovi abitanti.
Certo, detto così questo processo sembra preludere a dinamiche di gentrificazione, che finora hanno mostrato di concorrere al fenomeno dell’inaccessibilità della casa e non di contrastarlo. Ma la forza espulsiva dei fenomeni di gentrificazione è determinata da uno squilibrio strutturale tra la limitata offerta di alloggi di qualità e la maggiore domanda: se intere parti delle periferie (urbane e metaforiche) fossero dotate di spazi pubblici di qualità, edifici dignitosi, buoni collegamenti con i mezzi pubblici e servizi adeguati, potremmo invertire il rapporto tra offerta e domanda di alloggi senza costruire un solo nuovo edificio, con un incredibile effetto sul mercato immobiliare. Concedetemi un po’ di esagerazione e ironia: potremmo parlare di una sorta di gentrificazione di massa!
Dopo oltre vent’anni di lavoro su questi temi, sto cominciando a pensare che la soluzione al problema della casa non risieda tanto nella casa stessa, quanto nella città.
In ogni caso, anche se torniamo al tema del progetto degli alloggi in senso più strettamente disciplinare, il nostro ruolo come progettisti non è affatto esaurito. Questo è ancora più vero, a mio parere, se consideriamo che la crisi – urbana e non solo urbana – del COVID-19 è stata un catalizzatore di mutazioni con radici lontane, indicando la strada verso un cambio di paradigma fondamentale nella relazione tra abitanti, territori e lavoro. Come architetti, dovremmo esplorare nuove forme di vita residenziale, anche poligamiche, positivamente incerte, basate su nuove strutture familiari e comunitarie. Nei suoi momenti più alti, l’architettura è stata in grado di costruire immaginari precedentemente inesistenti, suggerendo generosamente futuri possibili. Credo che dovremmo tornare a una fase generativa di quel tipo, senza l’ambizione massimalista di disegnare noi stessi l’Uomo Nuovo, ma fornendo nuovi strumenti e, soprattutto, nuovi immaginari per quest’era di cambiamento tumultuoso.