Il figlio di Bin Laden

L’attualità mi perseguita.

Avevo deciso di tornare a parlarvi degli affari miei, ma la realtà è venuta a stanarmi.

Il fatto è che una volta ho mangiato il figlio di Bin Laden

Stiamo parlando della Pasqua di alcuni anni fa: un caro amico pittore (nel senso di imbianchino), allevatore a tempo perso, ci ha fatto dono di un meraviglioso capretto che ci siamo mangiati, per l’appunto, il giorno di Pasqua. Tale capretto era figlio di un fiero caprone dalla lunga barba nera battezzato dal padrone “Bin Laden”.

little billygoatQuesta curiosa vicenda testimonia il travaso ironico e sorprendente dall’attualità, riversata dai media su un pubblico suppostamente supino, alla quotidianità; almeno per come avviene nelle lande prealpine da cui provengo.

In fondo, per la stessa logica, nella Milano del dopoguerra, si diffuse il termine tecnico-urbanistico di “corea” per indicare gli insediamenti spontanei e autocostruiti degli immigrati, paragonati in questo modo alle immagini che giungevano dalla lontana penisola allora teatro del primo prodromo di una Terza Guerra Mondiale (per ora) ma scoppiata.

Normalmente si attribuisce ad altri popoli tale spiccata sagacia linguistica.

Si dice che in una borgata romana un tizio, che aveva perso un orecchio in un grave incidente, venisse chiamato dagli amici del bar “er tazzina”. Personalmente, vagando una notte per la Maremma nell’improbabile veste di questuante maggerino, nella villa campestre di una non meglio precisata contessa appassionata di vacche chianine, ho assistito alla disfida per stornelli tra un cantore romano e uno locale: devo ammettere che si raggiungevano vette non da poco.

Nell’App Store si trova un’applicazione per iPhone, dal suggestivo nome di iMortacci, in grado di far emettere al versatile dispositivo della Apple imprecazioni in vari dialetti italiani. In particolare si può scegliere tra affermazioni in Calabrese, Napoletano, Pugliese, Romano, Toscano e Veneto.

Quueste sono le parlate, secondo la vulgata corrente, dotati del frasario più creativo e colorito.

Sarebbe però ingiusto soggiacere a questo logoro luogo comune. Sembra quando, prima dei tempi dei cibi lenti, ogni trattoria a buon mercato di Milano vantava sull’insegna origini toscane, salvo poi annoverare tra i piatti in menù gustose orecchiette alle cime di rapa o abbacchi in varie salse.

Eccomi dunque qui a difendere, per quanto mi è possibile, l’arguzia delle parlate delle mie terre, con gusto, se volete, banalmente glocal (certo non autonomista, che a stare troppo tra uguali si avvelena il corredo genetico…).

Per esempio.

Un’amica, bergamina d’origine, aveva parenti stabilitisi in una cascina nella bassa cremonese. Il tizio, sicuramente bizzarro, era rimasto talmente imprigionato nella precarietà del nomadismo giovanile, da continuare a vivere in estrema povertà nonostante le ricchezze accumulate (si dice sotto al letto). Orbene, per questa amica, la spartana stamberga dove questi viveva era detta “l’Armenia”, in onore di quelle povere terre, allora assurte all’onore delle cronache per causa di un tremendo terremoto. E così, davanti a villeggianti esterrefatti, discutevamo di salami e uova fresche provenienti dall’Armenia.

E, come questa, molte altre storie di paese sanno sintetizzare sagacia e sberleffo, saggezza e sfottò. Mi riprometto di raccoglierne un po’ e tornare a parlarvene quanto prima.

Idealmente da leggersi ascoltando “la ballata del Genesio” di Davide van de Sfroos.

Un commento su “Il figlio di Bin Laden

  1. sìììì! Continua a raccogliere queste "storie" , Paolo. Ci sono un sacco di "Siberia" in Italia. Ma anche i nomi di persona sono interessanti: appena passato il Po, verso Busseto, ci sono ancora ottantenni col nome Aida o Radame. Chissà come mai? 😉
    Emanuela

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