Piccola premessa
Nella vita, tra molte altre cose, mi occupo di Social Housing. Me ne occupo, sia chiaro, come architetto e non come sociologo, operatore e meno che mai politico. È un tema che studio ormai da alcuni anni e qualcuno ha avuto addirittura l’ardore di dire che sono un esperto. Si potrebbe, da questo, desumere che io sia anche un esperto di periferie, luogo ahimé di elezione delle residenze più economiche. Secondo me non è così.
Ma veniamo a noi.
Come avrete capito, mi piace scrivere. Come vi ho già detto, questo è niente rispetto a quanto mi piace parlare. Insomma: mi piace la lingua. Mi piace scegliere i vocaboli più appropriati per esprimere un concetto, mi piace combinare le parole accordandone il suono e non solo il significato. Mi piacciono i giochi di parole, l’enigmistica, i calembour. Stravedo per le metafore, ma amo un po’ tutte le figure retoriche. (Come vivere, e scrivere, senza l’ossimoro? O senza l’anadiplosi?)
Ho sempre pensato che possedere una lingua sia una forma di libertà; che esprimersi compiutamente e correttamente sia un modo efficace di esercitare i propri diritti. Ho sempre pensato che le fondamenta della nostra democrazia siano state minate molto più dalla corruzione della lingua che dalla corruzione dei politici.
Non sono un conservatore, perché la lingua è sempre in movimento. Adoro la contaminazione linguistica, uso a profusione anglicismi e gallicismi. E dialettismi e tecnicismi. Lo chiamano prestito linguistico, e dicono che non va bene; ma a me il prestito mi è sempre piaciuto: se ci piace il book-crossing (chiedo scusa, il Giralibri), perché non dovremmo amare la contaminazione linguistica?
A volte mi sembra, però, che la lingua che parlano le nuovissime generazioni si sa molto impoverita, che abbia perso per strada pezzi, sfumature. Che la televisione abbia creato un linguaggio bidimensionale, e che i più deboli siano le vittime principali di questo processo. Ma forse non è così.
Qualche sera fa sono capitato a una festiciola di una coraggiosa associazione che insegna musica ai ragazzi nel carcere minorile di Milano. Eravamo in un appartamento in centro, requisito alla Mafia, e ho potuto assistere a un piccolo concerto di un giovane rapper milanese.
È stata un’esperienza intensa e molto interessante. Il privilegio un po’ voyeur di assistere a una cerimonia privata. Josh McK, Maestro di Cerimonie di nome e di fatto, arringava la piccola folla. La sua Crew lo sosteneva con un coro a suo modo tragico. Le ragazze agitavano ritmicamente le braccia, alcune occhi negli occhi con uno dei performer in un intenso sguardo che infonde coraggio. La carenza di microfoni enfatizzava la socialità del rito, imponendo uno scambio continuo di posizioni e ruoli. Qualcuno ballava con movenze più o meno a proposito. Qualcuno ha girato un video che mi piacerebbe vedere.
Sono cose viste mille volte al cinema o in televisione. Ma dal vivo, in piccolo, in un appartamento requisito alla Mafia, sotto lo sguardo fraterno di chi ha tanto lavorato, immersi negli afrori della piccola folla, è diverso. È vero.
Non conosco questi ragazzi, quindi non so. Ma posso supporre che appartengano a quella categoria più debole che menzionavo prima. In questo caso mi sbagliavo: questi qui, la lingua, la usano bene assai.
C-O-R-V
E-T-T-O!
p.s.: io, delle periferie, con ogni evidenza, non so un cazzo.
Scritto perché ho ascoltato “Corvetto è” di Josh McK (qualche sera fa) e tutto Frankie Hi-NRG (molti anni fa).