Premessa. Questa mattina ho deciso di resistere, di non cascare nuovamente nell’attualità (certo che è un periodo difficile per cercare di fare i non-impegnati). Quindi niente referndum, niente quorum, ne altre latinerie a sproposito. Ho votato, e questo è quanto.
Quindi: passiamo ad altro.
Come ormai sapete, ho sposato un’austriaca; purtroppo, per ragioni legate alla rendita fondiaria urbana che sarebbe lungo scrivere qui, non abbiamo un tinello, che quindi non può essere marron.
Lei (la moglie austriaca) parla un italiano quasi perfetto (e meno male, visto che io non parlo il tedesco, scusatemi pardon), al punto che i più stentano ad accorgersi del fatto che sia straniera. Ciò nonostante incappa, ogni tanto, in qualche errore, reso particolarmente surreale dall’assenza di preavviso. La Chrissi (così si chiama la moglie austriaca) tende per esempio a sbagliare l’accento di alcune specifiche parole, senza regola evidente. O a eludere l’uso del condizionale, che in tedesco non esiste.
Mi ha sempre colpito, però, la sua propensione naturale a incasinare le indicazioni temporali: sostantivi, aggettivi e avverbi si scambiano con allegria. In particolare, la Chrissi confonde spesso prossimo con scorso: queste inversioni determinano un effetto come di sospensione temporale francamente delizioso.
Secondo uno di quei tortuosi percorsi narrativi che caratterizzano le mie riflessioni destinate ad alimentare questo blog (cosa di cui torneremo a parlare), una recente situazione di questo tipo mi ha portato a una riflessione sul tempo che passa (eccome se passa).
Ho la sensazione che il nostro mondo abbia qualche problema a conformarsi al passare del tempo, perlomeno al suo testardo rifiutarsi di soggiacere alle nostre necessità.
Io, per esempio, temo di essere da tempo fuori syncro. Ai giardinetti guardo gli altri papà e, applicando con rapida precisione le note tecniche di demoscopia urbana, rifletto sul declino di una società con genitori cosi anziani. Alle volte risulta addirittura difficile capire se si tratta di un padre particolarmente passatello o di un nonno molto giovanile. Poi, d’improvviso, folgorato sempre dalla stessa intuizione, ogni volta come se fosse la prima, penso: ma anche io sono così?
Meglio non indagare oltre.
Un altro esempio. Diversi testimoni possono confermare che sono sempre stato una persona molto puntuale. Ho passato molti quarti d’ora (che sommati farebbero ore, giorni, mesi…) ad aspettare sui marciapiedi, nei mezzanini dei metro, in macchina. Molti altri testimoni, ovvero chi mi conosce da meno tempo, potrebbero evidenziare come raramente arrivi a un appuntamento con meno di un quarto d’ora di ritardo.
Alle volte mi chiedo cosa sia successo. È come se avessi perso il senso del tempo. Le mie giornate sono andate riempiendosi con evidente sprezzo della loro limitata durata. Il ritardo si genera già al momento di prendere un appuntamento, potremmo dire che è già in agenda.
Un ultimo testimone, ovvero il direttore della disgraziata filiale della Banca Popolare di Bergamo cui tocca amministrare i miei debiti, può confermarvi che il mio reddito NON è quello di un celebre chirurgo ne quello di un brooker di borsa. È quindi evidente che la congestione del mio tempo non dipende da un lavoro particolarmente sconvolgente, quanto piuttosto dalla incapacità di assumere l’inesorabilità del passare, del tempo.
E poi, molto altro si potrebbe dire sull’incapacità di rispondere a bruciapelo alle domande sull’età, sul “salve!” quando si incontra una persona, sul generico “l’altro giorno” che indica un momento qualsiasi degli ultimi i due anni, sul dare del lei. O su perché, l’altro giorno, mi sia comprato uno zainetto Eastpack e un paio di All Star.
Ma non volevo perdermi in sottigliezze, volevo solo chiedervi: succede anche a voi?
Scritto, come evidente fin dall’incipit, ascoltando Paolo Conte; nella fattispecie l’album “Concerti”, Warner 1985.