A me mi piace

Io provo una personale e spiccata antipatia per Alessandro Manzoni.

Non già, come spesso accade, per essere stato costretto a studiarlo alle superiori. Diciamo che le mie professoresse di italiano erano tali (per qualità media) e tante (per cambi continui) da non portarmi mai alla reale necessità di studiare alcunché.

Il mio problema con Manzoni è un altro, e ha a che fare con il ramaiolo, l’acquaio e l'”a me mi”. Il problema è che non si capisce, data la ricchezza di corsi d’acqua di ogni foggia e natura della Pianura Padana, perché cavolo egli abbia ritenuto di dover andare a sciacquare i panni in Arno. Così adesso, grazie a lui e alla Quarantana, se io dico mestolo e tu ramaiolo, se io dico lavello e tu dici acquaio, (vabbé lasciamo perdere), tu hai sempre ragione.

Il paradosso di questa vicenda, è che chi è più realista del re (e non mancano mai) pensa che si possa così sterilizzare una lingua, in barba anche al povero Alessandro. Per esempio, a me hanno insegnato fino alla noia che non si dice “a me mi”, mentre la vecchia di Gorgonzola (ancora senza gomme per far la casöla), cui Renzo chiede consiglio nel capitolo XVI dei Promessi Sposi, risponde, per l’appunto, “A me mi par di sì”. Quella particella, tutto fuorché una ripetizione, rafforza il personalismo dell’asserzione, ci chiama fuori da ogni oggettività, chiarisce, ben oltre la necessità grammaticale stretta, il nostro specifico punto di vista.

L’altra notte, dopo tanto tempo che non mi capitava, ho letto fino a tardi (nella fattispecie, Libertà di Jonathan Franzen). Le braccia indolenzite per la posizione scomoda, il letto stropicciato e il ventilatore acceso. Lo sguardo che periodicamente torna alla sveglia, scoprendo che il primo appuntamento della mattina si avvicina sempre più, e accettando questo moto perpetuo come ineluttabile. La realtà e la finzione che si preparano a mescolarsi nei sogni che di li a poco si impadroniranno di noi. Questo, per esempio, a me mi piace.

E così mi sono trovato a fare mente locale su una serie di piccoli piaceri, quasi invisibili, un po’ contraddittori, difficili da spiegare, che costellano la vita e che troppo spesso ci dimentichiamo.

gli ottoniPer esempio, a me mi piace ascoltare la banda. Mi piace lo sguardo assorto del suonatore di grancassa, che conta mentalmente le battute. Mi piace la fifa blu negli occhi del giovane clarinettista brufoloso e lo sguardo sicuro del navigato suonatore di oboe. Mi piacciono le divise, le camicie bianche sempre troppo grandi o troppo piccole e i pantaloni talmente sintetici da parere sull’orlo dell’autocombustione. Mi piace la gara di stazza tra quel diavolo di Bombardone e il suo rubizzo proprietario.

E poi, a me mi piace il vento. Adoro le raffiche e il vento costante, non temo gli spifferi e abuso dei ventilatori. Vivo nel culto del riscontro d’aria, anche se ormai è cosa fuori moda. Forse non dovrei vivere in una città dove l’aria langue stanca ogni giorno dell’anno, ma a me mi piace Milano.

Milano mi piace di notte in bicicletta, con i semafori che lampeggiano (cui ho pagato il pedaggio di una clavicola) e i mostri rumorosi, anch’essi lampeggianti, che lavano le strade. Mi piace in agosto, abbandonata come un villaggio minerario del selvaggio West, quando trovare un bar aperto è un’arte posseduta da pochi. Mi piace quando invade gioiosa le piazze, magari colorata di arancione o dei colori dell’arcobaleno, con sprezzo delle sua altre (forse più vere) nature.

A me mi piace l’odore dei boschi di faggio e stare con i piedi nel torrente gelido per costruire una diga di sassi. A me mi piace il sapore della focaccia condita di sabbia e acqua di mare.

Pensandoci bene, a me mi piacciono un sacco di cose (queste e molte altre). Forse dovrei dedicargli più tempo.

p.s.: tornando agli aspetti linguistici, a me mi piace quando la Lulù dice che non ha paura delle macchine, tanto lei sta in parte.

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