Alla fine degli anni Ottanta ero ragazzo e in estate davo una mano nella colonia estiva che la mia famiglia gestiva in una valle bergamasca. Sospeso a mezza via, un po’ facevo l’adulto e un po’ il bambino.
Una delle prime attività “da grande” che mi furono assegnate, oltre a fare l’arbitro delle partite di calcio dei più piccolini, era fare il proiezionista. C’era infatti un cinema dove alla sera proiettavamo pellicole a 16 millimetri, gli stessi cinque o sei film da oratorio per tutta l’estate.
Non dimenticherò mai l’odore di meccanica che nella cabina si mescolava a quello di intonaco umido e di pineta, il rumore del proiettore che si confondeva con i suoni della sera, il film visto dalla feritoia. L’incastro tortuoso della pellicola negli ingranaggi della macchina, il cambio della pizza tra il primo e il secondo tempo, le corse quando la pellicola si incastrava e rischiava di bruciarsi, il lavoro di forbice e scotch quando si era bruciata. E poi le chiacchiere seduti sulla scaletta fuori, il cielo d’estate, la vita davanti.
Poi vennero i televisori e le videocassette, oggi i computer, i devices e lo streaming. Tutto meraviglioso, e possiamo evitare di vedere trenta volte Io sto con gli ippopotami o Altrimenti ci arrabbiamo, ma quella poesia rimane per me indimenticabile.