Il bello, il brutto e il cattivo

Ehi tu. Si dico a te (Cosa ti giri, mica c’è nessuno dietro). Tu che mi stai leggendo. Dico, ma anche tu sei un architetto? No, perché, sai, gli architetti hanno un po’ questa tendenza a frequentarsi tra di loro. Anche altri lo fanno; i medici, per esempio; ma nessuno come gli architetti.

Dicevo, se per caso anche tu sei un architetto, ti pregherei di leggere con un certo distacco le righe che seguono; senza prenderle troppo sul serio, intendo. Se invece non sei un architetto, se magari non sei pratico della materia, se addirittura non sei marito-di-architetto, né moglie-di-architetto, né cugino-di-architetto e nemmeno amico-del-cuore-di-architetto (cosa abbastanza difficile, nel paese che vanta il maggior numero di architetti pro-capite al mondo), allora la tua opinione mi interessa davvero molto.

Già, perché, spinto da improvviso spirito suicida, vorrei oggi trattare il tema del “bello” in architettura. O, peggio, della percezione del bello. O, sempre peggio, del rapporto tra architettura e consenso, tra disciplina e gusto diffuso.

BOOM!

Giusto per chiarirlo subito, lo stile che avrei scelto per condurre la dissertazione, è quello che mi è più consono, noto ai più sotto l’espressione “elefante nella cristalleria”. Le righe che seguono brillano quindi per incompletezza, ignoranza, asistematicità e confusione.

Da ormai alcuni mesi, eventi apparentemente casuali e non connessi tra loro continuano a riportare la mia attenzione su questo tema. Per esempio, in un articolo di qualche settimana fa, il Daily Telegraph ha inserito la Torre Velasca tra gli edifici (forse) più brutti del mondo. Questo ha destato un certo scandalo nella città. L’edificio è infatti riconosciuto dalla storia e dalla critica come un caposaldo dell’architettura moderna milanese. Recentemente la Sovrintendenza ha addirittura deciso di porre un vincolo sull’edificio, giudicato «protagonista del panorama urbano grazie alla sua originalità». Lo riferisco per dovere di cronaca, anche se personalmente non sono un amante delle sovrintendenze e sono molto dubbioso sul concetto stesso di “vincolo”.

In effetti non è un edificio facile. La volumetria è imponente; il luogo dove si colloca è molto delicato, anche se segnato drammaticamente dai bombardamenti. Il linguaggio che propone è strano. Lontano dai molti e diversi linguaggi cui moderno, modernismo, post-moderno e modernetto ci hanno abituato. Ernesto Rogers, raffinato pensatore spesso (superficialmente?) indicato come l’ideologo del gruppo BBPR, autore dell’edificio, descriveva così la scelta: “La torre si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano, l’ineffabile eppure percepibile caratteristica”. Mica facile.

Un punto di vista incredibile e forse illuminante di questo edificio è dal chiostro delle Ca’ Granda del Filarete. Un amico ha postato su facebook una foto molto bella qualche giorno fa, ma temo la potrete vedere solo se anche voi conoscete Nicola.

 

Alcune persone che stimo, per fare un altro esempio, negli ultimi mesi hanno portato avanti un appello che è stato (almeno per me) occasione per fare alcune riflessioni. I suddetti, autodefinitisi intellettuali europei (al servizio della città), hanno duramente attaccato un progetto approvato dal Comune per la trasformazione di una porzione non piccola e sicuramente strategica del centro di Milano. Personalmente, condivido molto questo appello, nella sua tensione verso una maggior cura (pubblica) dei progetti di trasformazione della città, ma non lo condivido affatto nei suo lati passatisti, conservatori (conservazionisti) e tardo-luddisti.

Per tornare alla vicenda della Torre Velsaca, in un momento un po’ goliardico ho personalmente annunciato su facebook che “Dopo il coraggioso articolo di denuncia del Daily Telegraph, un comitato di intellettuali e cittadini milanesi si è mobilitato per ottenere l’immediata demolizione dell’ecomostro di piazza Velasca…”. Si trattava, come a me sembrava evidente, di un’ironica boutade. Eppure qualche amico (ovviamente architetto) l’ha presa sul serio, e ha risposto indignato. Non volendo qui mettere in questione l’intelligenza dei miei amici (ne permettetevi voi di farlo, chiaro?), mi sembra che l’equivoco dimostri ineluttabilmente la confusione che ormai regna sul tema. Risulta plausibile agli occhi di persone competenti che gli intellettuali possano attaccare un edificio che, al momento, soprattutto gli intellettuali stanno difendendo. Non ci fidiamo più neppure di noi stessi.

 

Si potrebbe continuare parlando di molti altri casi e di molte altre cose. Si potrebbe ragionare sul progressivo distacco dell’arte dal sentire comune; da questo punto di vista, forse, il paragone con la musica classica potrebbe risultare illuminante: per chi volesse provarci, suggerirei la lettura di Il resto è rumore, di Alex Ross (che ho scoperto grazie all’ennesimo amico architetto). Oppure si potrebbe discorrere di fine delle grandi narrazioni, di relativismo, di soggetto. E poi si potrebbe tornare sul tema del giudizio, delle commissioni di ornato, della progettazione partecipata. Un capitolo a sé meriterebbe la storia, la semantica, l’uso e l’abuso della parola ecomostro. Magari lo faremo. Ma adesso è tardi e ti ho annoiato abbastanza.

Eppure qualche paletto mi piacerebbe piantarlo. Posizionare almeno qualche punto fisso. Delle linee di resistenza, avrebbe forse detto Umberto Eco. Si potrebbe, per esempio, dire che è di solito più facile trovare un accordo su cosa sia brutto, piuttosto che non su cosa sia bello. Si potrebbe dire che in altri campi esiste un sentire ragionevolmente concorde sul bello; magari non scientifico e assoluto, ma sufficientemente diffuso da consentire la costruzione di intere economie. Si potrebbe dire che dell’architettura nella città non ci interessa forse la sua bellezza, quanto la sua appropriatezza, o la sua intelligenza. Si potrebbe parlare di senso civile dell’architettura. O di urbanità.

Ma forse anche questo è troppo per un modesto blog come questo, che in verità serve più che altro a passare qualche minuto spensierato ogni lunedì, perché odio quel giorno lì. E adesso basta, vado fuori (sempre se trovo i pantaloni) e vado ad affogare tutti i miei dolori. Ci vediamo lunedì.

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