Quest’anno compie 25 anni la mia idea di Europa. Va che non è mica poco.
Mi spiego. Nel 1987, dopo le prime ardite sperimentazioni durate più di un quinquennio, venne varato l’EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students, per gli amici Erasmus. In venticinque anni più di due milioni di europei, tra cui il sottoscritto, hanno passato mesi o anni (i migliori?) delle loro vite in un’altra città d’Europa.
Sono stati, per tutti noi, periodi di straordinaria intensità. Imparare una lingua nuova, abitare in una città sconosciuta e (prima dell’era dei voli Low Cost) lontana, scoprire università che (almeno per noi italiani) si rivelavano spesso più difficili e interessanti delle nostre.
E poi: l’irrefrenabile desiderio di calarsi integralmente nella cultura che ci ospitava, a costo di rendersi ridicoli. Davvero, si facevano cose abbastanza imbarazzanti. Tipo: parlare l’idioma locale per non farsi riconoscere dai propri connazionali, sottoporsi a estenuanti corsi di Sevillanas o mangiare quintali di cozze con le patatine fritte. Con un entusiasmo tale da sorprendere perfino i locali.
Il tutto, peraltro, non si esauriva nel periodo passato all’estero. C’era poi la tremenda sindrome da rientro, il volontariato all’ESN, le cene con cucina etnica, i ripensamenti, le ripartenze, i workshop internazionali, le tesi all’estero. Io, per esempio, oltre all’anno canonico di Erasmus, passato a Valladolid, sono stato qua e là (Samarcanda, Malmö, Bruxelles) per brevi periodi di workshop e poi altri sei mesi a Sevilla per la tesi.
Insomma, intere vite si sono ridefinite, sono nate grandi e durature amicizie internazionali, centinaia di migliaia di relazioni sentimentali sono state dismesse a favore di altre più internazionali, programmi di vita di generazioni sono andati a farsi benedire.
Voi pensate, per esempio, al Paolone. Uno che ha al massimo 100 km di distanza tra l’avo più settentrionale (della Val Brembana) e quello più meridionale (del Basso Lodigiano), uno che ha il culo talmente pesante che abita a pochi isolati dalla casa dove è cresciuto, uno che più che radicato è proprio cementato. Ecco, grazie all’Erasmus uno così si innamora in Svezia di un’austriaca dall’accento barese e si ritrova due figli che parlano tedesco. Mica male, no?
Aver fatto l’Erasmus ti da una prospettiva un poco diversa sulle cose. Non smetti di sentirti a casa nel tuo Paese, ma ti senti un po’ più a casa anche altrove. Confini, barriere, lingue, tutto appare relativo. Non comprendi certe polemiche su lingue e culture che si sopraffarrebbero l’un l’altra, hai una più chiara e netta propensione al miscuglio, alla mezcla, al métissage, alla mischung. Chiaro, no?
Insomma, noi che abbiamo vissuto in un appartamento spagnolo, che abbiamo fatto il botellón sulle rive del Guadalquivir, che abbiamo bevuto birra bavarese, francese, belga, austriaca come se non ci fosse un domani, che abbiamo attraversato l’Europa in automobile (altro che corridoio V) in viaggi a tappe indimenticabili. Insomma, noi ex Erasmisti ci sentiamo un po’ speciali. Ma non abbiamo capito niente, perché quelli speciali non siamo noi, ma i nostri figli, che l’Europa ce l’hanno dentro, nel DNA.
Io non so chi sia il signor Erasmus, chi abbia inventato questo stratagemma strepitoso. So però che aveva capito molto, se non tutto.”Se non è per cambiare la persona, la rivoluzione non mi interessa” diceva, credo, Che Guevara. Lo stesso penso io dell’Europa: poco mi interessa del carbone e dell’acciaio, di Maastricht e di Schengen, di trattati bilaterali e banche centrali. A me interessano gli europei (e le europee). E l’Erasmus ne ha fatti parecchi.