C’era un paese che si reggeva sull’illecito

L’Assessore si scusa con le 7.217 persone che l’hanno votato di loro spontanea volontà. Chi lo desiderasse può inviare notula da € 50 presso il suo nuovo ufficio di Piazza Filangieri 2, l’assessore provvederà appena possibile.

 

Secondo il Corruption Perception Index, che misura attraverso sofisticati sistemi statistici la corruzione dei paesi sulla base della percezione che i cittadini stessi ne hanno, l’Italia veleggia tra il 3,9 di quest’anno e un record assoluto di 6,5. Considerate che 10 indica l’assenza di corruzione (Nuova Zelanda, Finlandia e Danimarca, che si contendono da un decennio la prima posizione, sono stabili intorno al 9.5) e 1 è la massima corruzione (negli ultimi anni Somalia e Corea del Nord). Certo, trattando della percezione, l’indice è discutibile, anche se da anni universalmente accettato. E poi, forse non ci serve nemmeno la statistica per dimostrare una verità empirica sotto gli occhi di tutti.

Qui non si tratta di casi isolati di corruzione, temo fisiologici in democrazia, o di singoli gruppi di potere, o di certe fasce o certi settori. Qui si parla di un sistema ampio, pervasivo, coeso e globale. Peculato, malversazione, concussione, corruzione, abuso d’ufficio sono la prassi a ogni livello. Le ostriche di Fiorito e i diamanti di Belsito, le vacanze di Lusi e Penati con i suoi collusi, i voti ‘ndranghetisti di Zambetti e le pratiche erotiche della Minetti, Maruccio che si approppriò e le vacanze con Daccò.

Il 15 marzo 1980 Italo Calvino pubblicava su La Repubblica un piccolo racconto dal titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. In questo breve testo, aperto da un fulminante incipit (C’era un paese che si reggeva sull’illecito.), Calvino raccontava di un Paese pervaso da corruzione e malaffare rendendo, fin nei più minimi dettagli, le vicende del nostro paese nei trent’anni a venire. Davvero non ha senso riassumerlo qui, perché è un testo praticamente perfetto. Vi esorto a leggerlo (o, se proprio pigri, ad ascoltarlo).

Mi limito a riprendere qui parte della descrizione che Calvino da del bizzarro popolo degli onesti.

Avrebbero potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli abitanti di quel paese se non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano, costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici, né sociali, né religiosi, che non avevano più corso); erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione di altra persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare.

Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che riscuotono troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in mala fede.

Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (o almeno quel potere che interessava agli altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Calvino prosegue, con relativo ottimismo, rivendicando agli onesti il diritto di sopravvivenza, anche solo nelle piaghe di un mondo alieno. E questo è l’unico passaggio dell’intero testo che mi vede in disaccordo. Già, perché dopo alcuni decenni ci siamo solennemente sfracassati i coglioni.

Non sappiamo, sinceramente, quali siano le soluzioni. Capipopolo populisti, in buona o cattiva fede, hanno dimostrato di costruire sistemi assai facilmente infiltrabili da manigoldi di ogni risma; eppoi il populismo non è proprio nelle nostre corde. D’altro canto, l’esperienza di Tangentopoli ci mostra con chiarezza quanto sia improbabile che il sistema si riformi dal suo interno.

E allora, che fare? Non lo so, davvero. Ma so di non essere disposto a rassegnarmi.

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